Ripensare gli ambiti, ridefinire gli spazi pt.1

Cosa è REDO oggi? Non so se capita anche a voi di chiedervelo, di pensare a questa “creatura” e al percorso che ha compiuto in questi mesi. Ad ogni modo, a me si.

Ogni settimana, se non ogni giorno; probabilmente perché REDO è per me il risultato di una gestazione lenta e complessa: è la “messa in forma” di un turbine di idee ed emozioni che caoticamente mi mulinavano dentro. REDO, nel mio caso, è un’analisi viscerale che è partita da lontano, da un vecchio bisogno di riconciliare me con le mie idee, la pratica con l’osservazione. Difficile da spiegare, difficile da tirare fuori così. REDO, comunque, ha voluto essere un punto di (ri)partenza, di “riconciliazione” (parola tanto abusata) con i miei spazi, fisici e mentali. Sono tanti i momenti, i pensieri, dedicati a REDO e soprattutto cominciano a diventare momenti concreti, che stimolano le interazioni, che sviluppano connessioni. REDO è un gioco, se per “gioco” si intende un sistema di regole maledettamente serie e generate autonomamente; REDO è una chiave, per tentare di scrostare una patina di ruggine almeno dalla coscienza di chi vuole contribuire allo sviluppo della sua pratica (che non siamo tanti, ma non siamo neanche nessuno). Ancora, REDO è un tessuto di relazioni e di pensieri, in cui il ragionamento sulla memoria – storica e collettiva – è solo il punto di partenza, lo snodo. REDO non è un album da riempire di figurine, piuttosto – per usare un termine “alla moda” – è un cantiere: il luogo in cui le materie prime si combinano per assumere nuove forme, per dare corpo ai pensieri, alle intuizioni, ai modelli teorici. Se così non fosse, se le caratteristiche condizioni di cui sopra venissero meno, REDO perderebbe il suo senso di esistere, il suo ruolo. E non è una supposizione apocalittica, è anche questa un’osservazione: la materia di cui si nutre REDO è soggetta ad una rapida e irreversibile decomposizione, all’oblio (o – più poeticamente – al “sonno della ragione”) che corrode la coscienza.Riflettevo ieri, Primo Maggio, su questa cosa, guardando e ascoltando Portella, con le macchine che andavano via alle prime gocce di pioggia, con la sfilata di aspiranti vip della politica, con i mucchi di parole che evaporavano nell’aria. Pensavo a quei “60 anni” trascorsi,  a questa cifra che rimbomba come un gigantesco macigno, un monolite. Pensavo che contiene quasi il doppio del mio intero vissuto. Pensavo a una signora di Raffo, la frazione di Petralia in cui vive Pietro Li Puma, che si è cortesemente rifiutata di raccontarci la “sua” occupazione delle terre perché “tanti anni sono passati”…Al tempo stesso pensavo proprio a Pietro, al suo racconto che spero di riguardare con voi martedì prossimo, pensavo ai vecchietti di Portella cui abbiamo dedicato il volantino, pensavo a REDO: REDO-PROGETTO, REDO-GRUPPO, REDO-ESPERIENZA. Pensavo, ieri come oggi, che certo 60 anni pesano ma spesso tanto quando pochi giorni o pochi mesi, quando cioè le scelte fatte e le azioni intraprese diventano solo ricordi, episodi, aneddoti. Il “paradosso” REDO è proprio questo: uno spazio che si occupa di memoria ma che è proiettato ad essere in continuo divenire, a confrontarsi con la contingenza, con la precarietà dell’esistenza; a convivere con le “derive”, le “correzioni di rotta”, le osservazioni e le esplorazioni. Se non lo avete già fatto, vi consiglio di leggere “Le vie dei canti” di Bruce Chatwin, un libro che – adesso che ci penso – mi ha dato molto più che il semplice piacere di una bella lettura. Perché rimestare per l’ennesima volta su questi concetti triti e ritriti? Perché, vi confesso, ho l’impressione che molti dei fondamenti di REDO si stiano rapidamente svuotando, il rischio – storico rischio dei collettivi palermitani – è quello che tutto si incanali verso la ripetizione liturgica priva di significato. Ieri e stamattina, ripassavo mentalmente alcuni momenti del percorso REDO ufficialmente condiviso, riguardavo il cosiddetto “manifesto”, osservavo il languire del blog e cercavo di assemblare tutte questi “documenti” e “orizzonti” per cercare di capire cosa serve, e cosa manca, alla definizione del nostro “territorio” comune, il territorio REDO intendo. Ecco, allora, da dove viene il titolo di queste note: ripensare gli ambiti e ridefinire gli spazi è una necessità che deve e dovrà essere sempre presente nell’azione REDO, cui non è consentito “mettere radici”. È compito di ognuno/a di noi pensare il proprio ruolo in REDO e pensare il ruolo che REDO ha nelle proprie rispettive vite, è compito di ognuna/o di noi definirne lo spazio, l’azione, la pratica. Senza attendere, senza fermarsi, senza perdere lo sguardo e, soprattutto, condividendo gli strumenti, le perplessità, le intuizioni, le necessità ad esso inerenti.  REDO non è un rifugio per l’attesa, REDO  è un attacco frontale alla elusione degli effetti prodotti dalla “chirurgica opera di sradicamento della memoria sociale collettiva” . Questo virgolettato è nostro, e non sono – non possono e non devono essere – solo armoniose parole per descrivere un’idea. Tanto per cambiare, è probabile che questo fiume di parole non riesca a chiarire dove io voglia andare a parare. Mi dispiace, è un limite che ancora non riesco a superare. Più o meno quello che tento di fare è condividere riflessioni e sensazioni e augurarmi di innescare re-azioni, ricevere stimoli e ulteriori tasselli (e ho, ad esempio, la sensazione che REDO abbia innescato un interessante sistema di incroci trasversali “extra collettivo). Mi auguro tutto questo e soprattutto di riuscire a chiarirmi, poco a poco – ma senza sosta – i limiti e il potenziale dell’azione REDO, della gente che lo anima, degli obiettivi e delle forme. Prossimamente (ed è una palese minaccia):“Ripensare gli ambiti, ridefinire gli spazi parte 2: strumenti e piattaforme di comunicazione interna ed esterna”

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